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La poesia è ovunque. Nelle strade dei quartieri malfamati, nella sala d’attesa del medico, nei treni in ritardo, nelle lenti che guardano al contrario, persino in una società che guarda con sospetto un’attività così poco produttiva quale quella di contemplare la bellezza, o la bruttezza, del mondo. Quale aspetto prevalga lo decidono le nostre mani e le nostre parole. Forgiamo molecole di sillabe e frasi atomiche nelle nostre stanzette, cantine, appartamenti e sotto i ponti, all’inno di: scriviamo quel che vogliamo, senza bandiere o liriche per localini chic. Non è un’impresa da poeti laureati questa, al limite lo è per laureandi, diplomati, alcuni anche con la terza media. Non abbiamo appeso la cetra al vento, ma non possiamo suonarla in piazza, se ad ogni metropolitana c’è un militare. Così ci infiltriamo, nelle crepe della città, ad eseguire un assolo collettivo di violino ai bastioni dell’impero che viene giù, non ad onorarne la memoria, ma per farlo crollare definitivamente. Noi sappiamo dirvelo benissimo chi siamo e cosa vogliamo. E non vi piacerà, garantito.